Attendo con gioia il venerdì pomeriggio perché le otto ore di treno mi regalano del tempo per poter leggere. Sono su un intercity che mi sta riportando a casa ed il mio vicino di poltrona senza curarsi dell’intensità dei decibel emessi dalla sua voce, sta rendendo partecipe tutto lo scomparto dell’andamento della sua officina e della necessità di partecipare ad un corso di formazione. Il signore di fronte, magia del tavolinetto a quattro, mi guarda da vicino distrattamente mentre trascrivo la frase che ho sottolineato prima dal libro che ho appena finito di leggere. Chissà cosa avrà pensato vedendo le smorfie della mia faccia mentre riguardo l’immagine di questa pubblicità:
E’ un fastidio che non ve lo so spiegare, ma sono sicura che per molte di noi non è un’esperienza nuova. Eppure avrei dovuto capirlo, la giornata era cominciata già male con la fine, finissima ironia del titolo di *noncredodovremmodefinirlogiornale* sulla Raggi, a dimostrazione che il titolista del suddetto giornale ha perso, ancora una volta, una buona occasione per tacere (ma tanto sono dei campioni di delicatezza, qualche mese fa ci si riferiva ad una persona definendola “arrostita”).
Ed ecco che focalizzo in maniera precisa perché questa volta mi infastidisce in maniera più profonda, me lo sento questo fastidio nella pancia. Si tratta di due situazioni apparentemente diverse, da un lato una pubblicità di una attività commerciale localizzata a Cosenza, dall’altro un titolo di una rivista a tiratura nazionale, accomunate dall’essere ugualmente becere per il sessismo del messaggio, ma con una aggravante: non sono nuove a questo genere di messaggi. Non è il guizzo di un momento di una persona che prende una cantonata, il titolista che guarda la programmazione e rievoca un vecchio film (!) o del pubblicitario che impazzisce ipotizzando quanto possa essere divertente la battuta dei 90° tra lavatrice e posizione sessuale (mi sa che non fa ridere dal 1970, eh). No, no, no, questo messaggio è studiato, preparato, scelto, dosato con cura. Probabilmente oggetto di lunghi brainstorming per continuare ad essere all’altezza dei messaggi precedenti. Chissà quante notti insonni per partorirlo.
E questo cambia tutto. “Suvvia Francesca, quanto sei bacchettona: e fattela una risata su! Cosa vuoi che sia, sono solo parole”. Ecco, non sono solo parole. Sono fatti, reiterati. Azioni che possono essere compiute perché, a voglia di scriverne ed indignarti, non sarà certo l’articolo del tuo piccolo blog a cambiare le cose: il titolista continuerà coi titoli cretini e l’attività commerciale continuerà a vendere e a pensare ancora che l’importante è che se ne parli. Nessuno dei due mi avrà come cliente, ma nessuno dei due mi aveva come cliente, quindi de facto la mia indignazione non cambia i loro profitti. Però io nel mio piccolo, ci provo lo stesso: continuo ad indignarmi, continuo a scrivere che oggi più che mai la figura delle donne sta subendo un lento stillicidio, fatto di mortificazioni, battute volgari, commenti inopportuni, attenzioni non volute, immagini diffuse senza consenso, meme violenti. Solo per citare gli ultimi tre giorni: i commenti alla youtuber Greta Menchi per la partecipazione a Sanremo, la scia di rabbia (?) per Chiara Ferragni, l’indice puntato contro la Leotta (il tweet della Balivo, in quanto donna, è una doppia sconfitta). E chissà quante altre situazioni nella vita di tutti i giorni, di ognuna di noi.
Non lo sentite?
Sta succedendo qualcosa ed è così sotto gli occhi di tutti da essere quasi invisibile. Una tendenza che ci vuole sexy ma non troppo, carine ma non troppo, svestite ma non troppo e Dio non voglia mai, abbastanza intelligenti da non smettere di arrabbiarci per questi messaggi beceri e sessisti.
Questo 2017 ha il retrogusto dei secoli bui.
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